L’isola degli alberi scomparsi di Elif Shafak
Trama Nata e cresciuta a Londra, Ada Kazantzakis, sedici anni, non sa niente del passato dei suoi genitori. Non sa che suo padre Kostas, greco e cristiano, e sua madre Defne, turca e musulmana, negli anni Settanta erano due adolescenti in quell’isola favolosa di acque turchine e profumo di gardenie chiamata Cipro. Non sa che i due si vedevano di nascosto in una taverna di Nicosia, dalle cui travi annerite pendevano ghirlande d’aglio e peperoncini. Non sa che al centro di quella taverna, testimone dei loro incontri amorosi, svettava un albero di fico. E non sa che l’albero, con le fronde che uscivano da un buco sul tetto, era lì anche quando l’eterno conflitto dell’isola, spaccata in due lungo la «linea verde», si era fatto più sanguinoso e i due ragazzini non erano più venuti. Ora quello stesso albero, nato da una talea trafugata anni prima a Londra, cresce nel giardino dietro la casa di Ada: unico, misterioso legame con una terra dilaniata e sconosciuta, con quelle radici inesplorate che, cercando di districare un tempo lunghissimo fatto di segreti, violente separazioni e ombrosità, lei ha bisogno di trovare e toccare, per poter crescere. Pulsano, in questo libro spalancato sulla distruzione e gli esili provocati dalla guerra, colori luminosi e profumi d’erbe e olive nere; il battere delle ali di uccelli di ogni piumaggio; il canto ininterrotto delle fronde di un albero, il respiro sano di un amore e quello fiero della vita.
L’isola degli alberi scomparsi di Elif Shafak, libro di narrativa contemporanea pubblicato da Rizzoli Libri lo scorso 14 settembre.
Ho tre piante di fico in giardino, le ho osservate per tutto il tempo di lettura de L’isola degli alberi scomparsi. Ho guardato le fronde piene di frutti voluttuosi, ho guardato il tronco, forte e massiccio, e ho pensato alle radici, piantate nel sottosuolo da quasi un secolo. Ho pensato al nonno materno che, quasi cent’anni fa, aveva curato con molto amore questi alberi, partendo da una talea. Non avevo idea che mi sarei ritrovata un fico come narratore all’interno del libro di Elif Shafak. Ma, prima di parlare di questo romanzo, è necessaria una piccola spiegazione di carattere geopolitico riguardante Cipro.
L’isola, la terza per estensione nel Mediterraneo, da un punto di vista politico e culturale appartiene all’Europa ma, per la vicinanza al continente asiatico, geograficamente appartiene all’Asia. Nel territorio vivono sia greco ciprioti, in larga maggioranza, sia turco ciprioti, separati da anni di guerre, dominazioni e divisioni interne. La Shafak sceglie la strada del ricordo, della memoria, di non seppellire la testa sotto alla sabbia e non rinnegare le proprie radici anche quando si decide di lasciarsi il passato alle spalle e si cerca di costruire un futuro altrove, lontani dal sangue, dalla distruzione e dai colori di una terra meravigliosa. E lo fa con una lirica poetica intrisa di realismo magico, in cui il POV di un albero di fico fa da sfondo alla storia. È l’albero a narrare la parte più buia della sua terra di appartenenza, ma è anche testimone della nascita di un sentimento puro, che va oltre le divisioni culturali e religiose. Il libro si sviluppa su tre diversi piani temporali. Inizia tutto a Londra, dove incontriamo Ada (in turco significa isola), una adolescente di sedici anni che disconosce il passato della sua famiglia. A scuola le è stato assegnato un compito particolare: deve intervistare un parente e raccontare una storia, ma lei non ha alcun legame con nessun membro della sua famiglia di appartenenza. I suoi genitori non le han mai rivelato niente sulle loro origini ed Ada non sa che il padre Kostas, uno stimato naturalista di origini greco cipriota, e la madre Defne, turca cipriota, negli anni 70 si erano profondamente innamorati in quell’isola dai colori brillanti. Due Romeo e Giulietta moderni separati da una divisione di carattere politico religioso. Impensabile per il loro tempo una storia d’amore mentre il Paese era devastato da una sanguinosa guerra civile.
“Non ci s’innamora nel bel mezzo di una guerra civile, assediati dalla carneficina e dall’odio. Si scappa, alla massima velocità consentita dalle gambe e dalle paure, per sopravvivere e nient’altro; si prende in prestito un paio d’ali e ci si libra alti nel cielo, il più lontano possibile.”
Defne e Kostas si vedevano di nascosto in una taverna chiamata “Il fico allegro” con la complicità dei due proprietari del locale, un turco e un greco, sotto l’occhio vigile di un albero di fico che cresceva all’interno della taverna e svettava attraverso un buco sul tetto. I due ragazzi pensavano di riuscire a scalfire la ritrosia delle famiglie e trovare un punto di distensione e avvicinamento delle loro culture. Ma erano gli anni 70 con gli attentati e le rappresaglie sempre più violente da parte di entrambe le fazioni. Mentre a Nicosia si combatteva una sanguinosa guerra civile, Defne e Kostas si amavano, costruivano un futuro insieme fatto di sogni e ambizioni. Ma, quando comandano morte e distruzione, non puoi permetterti di abbracciare la speranza. Non puoi indossare il tuo vestito più bello mentre sei circondato da schegge e rovine. E soprattutto non puoi mettere in gioco il cuore quando a dividere i due innamorati ci sono religioni e credi diversi.
“Si chiama Linea verde, la partizione che taglia in due Cipro allo scopo di separare i greci dei turchi, i cristiani dai musulmani.”
Quell’albero di fico, che spiava i due ragazzi, oggi si trova a Londra, nel retro della casa di Ada. È stato Kostas a portare con sé una talea, per donargli una seconda vita in una terra straniera, in cui poter crescere forte e rigoglioso. Ed è l’unico elemento che lega Ada ad un Paese che non conosce, i genitori hanno scelto, infatti, di tacerle tutti i particolari legati alla sua terra di origine per farla crescere lontana da pregiudizi e dolore. Ma è davvero questo ciò che vuole la ragazza? A volte, per potere andare avanti bisogna guardarsi indietro, riappropriarsi delle proprie radici e non rinnegarle.
Elif Shafak torna in libreria con una storia potente, con una fortissima connessione alla natura, un romanzo che commuove con una prosa avvolgente. Ho amato particolarmente la scelta dell’autrice di non prendere una posizione netta, non si schiera perché critica allo stesso modo il comportamento delle due fazioni e riconosce ad entrambi i popoli dei punti in comune che vanno al di là di ciò che li separa. Il cibo così simile nella rappresentazione dei piatti e le ancestrali paure legate alla superstizione sono elementi che troviamo in entrambe le culture. Ho adorato le incursioni narrative dell’albero di fico, le sue riflessioni sono le più profonde. Ed è dietro a quelle fronde che incontriamo il pensiero di Elif. L’autrice ci parla attraverso l’albero e lo fa con una lirica evocativa e ricca di immagini suggestive.
“I sapiens sono strani, pieni di contraddizioni: a quanto pare, hanno tanto bisogno di odiare ed escludere quanto di amare e accogliere. Chiudono il cuore, poi lo spalancano, e poi lo serrano di nuovo, come un pugno indeciso.”
Pochi libri hanno catturato così la mia attenzione, non esagero se lo considero il romanzo più bello di quest’anno, e in termini di valutazione questo si traduce in una sola parola: smeraldo.