Almarina di Valeria Parrella
Trama Esiste un’isola nel Mediterraneo dove i ragazzi non scendono mai a mare. Ormeggiata come un vascello, Nisida è un carcere sull’acqua, ed è lì che Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Ha cinquant’anni, vive sola, e ogni giorno una guardia le apre il cancello chiudendo Napoli alle spalle: in quella piccola aula senza sbarre lei prova a imbastire il futuro. Ma in classe un giorno arriva Almarina, allora la luce cambia e illumina un nuovo orizzonte. Il labirinto inestricabile della burocrazia, i lutti inaspettati, le notti insonni, rivelano l’altra loro possibilità: essere un punto di partenza. Nella speranza che un giorno, quando questi ragazzi avranno scontato la loro pena, ci siano nuove pagine da riempire, bianche «come il bucato steso alle terrazze». Questo romanzo limpido e intenso forse è una piccola storia d’amore, forse una grande lezione sulla possibilità di non fermarsi. Di espiare, dimenticare, ricominciare.
«Vederli andare via è la cosa più difficile, perché: dove andranno. Sono ancora così piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui».
Almarina di Valeria Parrella, romanzo di narrativa contemporanea pubblicato da Einaudi il 2 aprile 2019.
Non so davvero da che parte cominciare, scusatemi ma questo libro mi ha impegnata davvero moltissimo, sia emotivamente che psicologicamente. E avrei dovuto saperlo, non è certo il primo romanzo che leggo di Valeria Parrella, perché l’effetto prodotto dai suoi libri è sempre totalizzante. Fanno male, che ti piacciano o meno, rimanendo incollati ai pensieri, fino a diventare loro stessi il pensiero ricorrente.
Ma partiamo con ordine perché Almarina è, per prima cosa, un romanzo tra i dodici finalisti del Premio Strega. Uscito in sordina nell’aprile dello scorso anno, è balzato agli onori delle cronache quando è stato proposto in giuria da Nicola Lagioia, direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino dal 2017, vincitore anch’egli dello Strega nel 2015 con La Ferocia edito Einaudi.
Proprio Lagioia, in un post su facebook, ci racconta come, a lettura ultimata, sia rimasto catturato dalla forza linguistica di questo libro, che è tale per il modo in cui riesce a diventare esperienza emotiva nel lettore. Secondo il suo punto di vista, il nostro Paese non si merita libri di questa levatura, il che rende una sfida e forse un affronto il fatto stesso di avere nel suo interno un simile approccio all’uso delle parole.
L’autorevole pensiero di Nicola Lagioia è probabilmente il più corretto che io abbia trovato nell’analizzare il percorso di questo libro. Perché badate bene, Almarina divide, non ci sono mezze misure, o si ama o si odia. E questo succede quando ci si trova davanti a qualcosa che non si comprende fino in fondo, ma che appare chiarissimo appena sopraggiunge la spiegazione corretta. Quindi non lasciatevi influenzare da chi lo reputa pretenzioso, lento e frammentato perché per certi versi è corretto! Ma certamente non finisce tutto qui, la Parrella ha una scrittura graffiante e lucida, tanto che a tratti può sembrare fredda ma che, allo stesso tempo, è necessaria per raccontare una storia di abusi, maltrattamenti sui minori, con passati tortuosi e vite lasciate a metà. Nonostante il titolo, supportato dall’immagine in copertina, suggerisca anime e mare in un placido scorrere, lo sguardo attento e critico, ma mai fuggevole dell’autore, non lascia spazio ai sentimentalismi dei personaggi. Lo stile asciutto, a volte tagliente, ma che lima le parole in una scrittura senza fronzoli, lascia che il carico di emozioni venga portato dal lettore stesso, in base alla propria sensibilità o prospettiva.
Almarina è tanto bello quanto complesso poiché non è solo un romanzo sull’amore che tratta problemi politici. È una storia di vita, ma soprattutto di giustizia.
La voce narrante è quella di Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica dell’Istituto penitenziario minorile di Nisida a Napoli, che al di fuori di questo contesto non ha più nessuno ad attenderla. Un marito sposato tardi e andato via troppo presto, un clima di solitudine aberrante che la avvolge, spesso riempito con gin e sambuca, sono tutto ciò che le resta. Il carcere è quindi il rifugio che, assieme alle banali azioni quotidiane, sempre ripetute, e il ricordo del passato che mai la abbandona, riescono a darle la forza di andare avanti.
Nisida è una piccola isola che si affaccia sul mare e da cui si respira il ricordo della libertà perduta, un approdo al quale si può attraccare ma dal quale, prima o poi, si deve ripartire. Un luogo sovraccarico di memorie, di atti e di giustizie, un luogo di mezzo, un teatro di passaggio per tutti quei ragazzi che hanno sbagliato e che devono scontare la loro pena. Una pena che si misura in base alla loro età, perché sono tutti minorenni, tutti ragazzini e ragazzine che, espiata la loro colpa, torneranno nella realtà di prima, cambiati o meno.
Almarina è proprio una delle giovani detenute di Nisida, arrivata dalla Romania con un carico di violenze, orrori e ossa rotte, una a cui è successo talmente tanto che non c’è rimasto spazio per altro male. Attraverso i suoi gesti, offre arrendevolezza e volontà di ricominciare, il terreno fertile che Elisabetta coltiverà con la speranza di farla rifiorire.
La vita di Elisabetta, prima e dopo Nisida, è una quotidianità colorata da una gamma di grigi, opachi come la sua anima appassita giorno dopo giorno con la morte del marito. Inspessita dagli effetti della solitudine e travolta dagli avvenimenti della vita stessa, si lascia con apatia trascinare dalla corrente. Tutti questi sentimenti emergono in maniera prorompente nella prima parte del libro, tanto che si ha distintamente l’idea della solitudine, e la si sente forte, così forte che è semplice comprendere il perché questa donna sembri agire quasi in modo meccanico, avendo perso lentamente ogni slancio vitale.
Ma dentro Nisida, tutto è diverso. Perché Nisida è un’isola ma anche una nave che sembra bastare a sé stessa. Questo piccolo mondo racchiude la speranza di vedere i propri abitanti ricostruirsi un futuro, o meglio di non perderlo del tutto una volta usciti. Quella speranza che Elisabetta ha perso per sé stessa ma non per gli altri. L’arrivo di Almarina però la affascina, poiché con la sua anima pura, nonostante tutte le bruttezze e le brutalità della vita, è capace di sorridere e di vedere la vita con positività. Tutto il contrario di Elisabetta che, sempre in guerra e prigioniera di sé stessa, rivede uno spiraglio di luce in quella ragazza che riporterà il suo asse nella giusta collocazione.
Attraverso quest’intesa perfetta, nascerà una magia in grado di riconciliare entrambe con la vita.
Almarina è sicuramente la figlia che Elisabetta non ha mai avuto, che rimpiange ma sulla quale riversa tutto il suo affetto, le sue speranze e quella solitudine che non è più abbandono, ma solidarietà, comprensione, condivisione. L’affetto che le lega è destinato a sopravvivere a qualsiasi legge e ostacolo poiché è quello di due solitudini che si riconoscono, nelle difficoltà della vita, e che hanno bisogno l’una dell’altra per spiccare il volo.
Attraverso il racconto della protagonista, riusciamo anche ad entrare nel carcere: conosciamo i ragazzi che lo popolano; il bel comandante, che Elisabetta segretamente desidera, lo scorbutico e freddo direttore, e l’amica Aurora. Tutti personaggi profondamente diversi da lei, un coro di voci che riusciamo a sentire attraverso la voce di Elisabetta stessa che ce li presenta e ce li fa conoscere.
Ma sarà sempre Nisida il vero punto di osservazione da cui la protagonista riflette sulla sua vita fuori da lì, una vera finestra sul proprio mondo solitario. Un carcere isola anche per il paragone con Capri, che le sta di fronte, e il suo mondo dorato totalmente in contrasto. Un distacco sociale che si ritrova benissimo nelle pagine del libro, nella disparità tra classi e status quo, come a togliere il velo a quella società che non ci piace guardare e quelle brutture che, come polvere, nascondiamo sotto il tappeto.
Quello che non è più presente nella vita, non esiste più. È un concetto che ritorna spesso come un’eco tra le pagine mentre le protagoniste cercano la rinascita insieme, trovando la forza di sopravvivere accomunando ferite e dolori. Grazie a questo incastro perfetto, all’incontro giusto nel momento giusto, non ci sarà carta, tribunale o autorizzazione che tenga: l’amore non ha bisogno di legge ed il prendersi cura reciprocamente è un gesto che non richiede burocrazia.
Almarina è una storia che parla di persone e luoghi dimenticati, degli invisibili, degli spezzati, e li contrappone ad un racconto di speranza, di cambiamento e rinascita. Offre uno spiraglio, una piccola luce che può farci riflettere mettendo in discussione un intero apparato legislativo statale, tornando a far sentire la voce dell’umanità. E sotto ogni aspetto, la scrittura della Parrella è innegabilmente onesta! Non aspettatevi un romanzo facile da leggere e nemmeno da digerire, eppure è necessario che esista. Perché questa è la verità di cui abbiamo bisogno, senza edulcorazioni o fake news. Si merita uno smeraldo nel mio cuore, ma non lo riceverà fisicamente perché la scelta stilistica è un azzardo che non arriva a tutti, capisco non si potesse fare altrimenti poiché è il modus operandi della scrittrice, ma è anche un peccato che, una storia del genere, non possa essere letta e compresa. In ogni caso io vi consiglio di cimentarvi in questa lettura senza abbattervi perché inizialmente ostica, magari supportati da qualche ricerca per la comprensione del testo. Vedrete che ne varrà sicuramente la pena!